il karate, la lezione e la metafora dell’inglese – di Ivano Casali
La “sessione di allenamento” che diventa nella nobile disciplina marziale giapponese la “lezione di karate” (sempre si insegna o si apprende qualcosa), termina con un rituale preciso previsto dalla dottrina stessa, diviso, a seconda delle usanze o dagli stili di karate in più fasi, eppure, generalmente tutti includono una fase di meditazione.
Questa fase contemplativa viene denominata mokuso pronunciato dal Sensei “moh-kso” (MOKU: Silenzio, SO: pensieri) e la cintura con il grado (kyu) più alto effettua il saluto al il maestro ed il saluto agli altri allievi, non spendo altre parole su questa fase di saluto vero e proprio sia perché ci vorrebbe una nota a parte (la scriverà sicuramente qualche mio compagno di Dojo prima o poi !!) sia poiché in fondo spero che i lettori di questo articolo si incuriosiscano e si avvicinino alla nobile disciplina preferibilmente in stile Shinseikai ovvero vengano quantomeno ad assistere ad una nostra lezione dall’inizio alla fine.
Anche se non era questo l’obiettivo del mio articolo spenderò comunque due parole sul “mokuso”, più precisamente, su come ho compreso ed interpretato questa fase di silenzio e di pensieri. Come si svolge, innanzitutto occorre il silenzio (MOKU), è doveroso, è impossibile riuscire in mezzo a chiacchiere, musica o rumore a pensare (SO) e concentrarsi; una volta ottenuto il silenzio in una determinata posizione del karate (Mosubi dachi) si chiudono gli occhi e si inizia una produzione di “meraviglie autofinanziate” dal nostro cervello che vanno a vantaggio della nostra mente e dell’autostima, incentrate su:
– recupero dallo sforzo appena concluso;
– comprensione dei propri limiti:
– tecniche poco incisive;
– preparazione atletica;
– difesa debole;
– stabilire strategie per migliorare;
– allenare la forza esplosiva;
– stabilire un piano di allenamento dedicato con il Sensei / Senpai;
– curare prettamente la difesa durante i Kumite o allenarsi con cinture più
– individuare i propri punti di forza e come utilizzarli all’interno di combinazioni;
– memorizzare le combinazioni di tecniche appena eseguite;
– preparare il corpo all’uscita dal Dojo, al ripristino dei propri impegni quotidiani,
al ripristino ed alle strategie per la risoluzione di quei problemi lasciati qualche ora prima fuori dal Karategi;
Al termine del Mokuso, si passa alla seconda fase (il suddetto saluto) ed infine, terza ed ultima fase, il Sensei trasferisce il know-how specifico sulla lezione appena svolta e fornisce eventuali riscontri a specifiche persone o semplici annotazioni per tutti, per il futuro.
Dopo tanti anni di allenamento, apprezzo molto anche questa ultima fase che nelle arti marziali risulta più facilmente realizzabile tramite metafore e paragoni con altre discipline, da qui il titolo dell’Articolo “il karate, la lezione e la metafora dell’inglese”.
Avrei voluto, prima di perdermi con quanto sino ad ora esposto, semplicemente raccontare l’ultimo (venuto fuori proprio ieri sera) paragone, che personalmente ho trovato molto calzante, tra lo studio di una lingua straniera ed il karate, in sintesi si può studiare (kata, khion) una lingua straniera come ad esempio l’inglese, fare esercizi (yakusoku kumite) ma se non si affianca e ci si impegna in costante “conversation”, se non ci si confronta con altri nell’uso della lingua (Kumite !!) difficilmente si riesce a parlare e scrivere bene in inglese.
A buon intenditor poche parole, colgo l’occasione per…….. OSU !
Ivano Casali