Kumite

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Kumite

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Un piacevolissimo articolo del neo Senpai Ivano Casali e della sua visione del Kumite.
Buona lettura, OSU!

Il termine giapponese Kumite si compone della parola ‘kumi’ il cui significato è “mettere insieme” e della sillaba ‘te’, il cui significato è “mano” (questo sono sicuro lo sapevano tutti !), per noi occidentali corrisponde a combattimento, confronto, “il mettere insieme”, almeno due contendenti.

Il fine ultimo di un incontro negli sport da combattimento è quello di mettere fuori gioco il contendente, quello di un incontro di karate, un kumite, rappresenta principalmente la crescita reciproca dei praticanti ovvero l’apprendere e l’insegnare, indipendentemente dal risultato finale.

Propedeutici al kumite sono khion e renraku, che rappresentano tecniche, attacchi e contrattacchi da svolgere in autonomia, meglio ancora se effettuati allo specchio o con la supervisione di un compagno di dojo, yakusoku kumite combinazioni prestabilite di attacco e contrattacco da effettuarsi con un compagno, con un avversario, per “inserire nel DNA” (per dirla alla Sensei Filippo Calà)  l’apprendimento delle tecniche dal punto di vista formale e la loro applicazione.

Un ulteriore allenamento che aiuta la preparazione al kumite è lo “shadow” (ombra),   un combattimento (uno o più round) contro un avversario “immaginario” in cui si cerca di mettere in atto quanto appreso nelle varie sessioni di yakusoku kumite, concentrandosi sull’esecuzione perfetta  delle tecniche di attacco e contrattacco, cercando di raggiungere un equilibrio mentale che consenta una corretta posizione di guardia ed una respirazione adeguata a raggiungere ed ottenere la consapevolezza delle nostre capacità.

Possiamo prepararci al kumite, ma, quando si passa alla pratica, si effettua  il combattimento vero e proprio. In quel momento la nostra mente cerca subito di impossessarsi del corpo, si “adegua” a modo suo, contro il nostro volere, al contesto ed all’avversario. Contrariamente a quanto auspicheremmo, se il nostro avversario è una cintura alta o una cintura nera,  Shodan,  Nidan, Sandan (1°, 2°, 3° Dan) mettiamo paradossalmente in atto un meccanismo di riverenza, le nostre tecniche diventano meno complesse, meno veloci, meno efficaci, quasi timorosi (di far male, di essere poco rispettosi, di esagerare), con risultati ovviamente diversi dalle nostre potenzialità e soprattutto diversi rispetto alla nostra effettiva preparazione, anche mentale, sino al minuto precedente il kumite. Per fortuna questo fenomeno non si verifica sempre, non è così automatico e si può e si deve lavorare per contrastarlo, così come, “l’incontro” con una cintura più bassa della nostra, dovrebbe, basarsi sull’aiuto all’avversario, ma senza tralasciare i nostri di errori.

Nello stile Shinseikai, sebbene controllato e supervisionato, è previsto il pieno contatto (full contact karate). Lo sforzo mentale durante un round con un avversario, è fortissimo, si cade spesso nelle paure ancestrali, mi farò male, gli farò male, si presentano le reali difficoltà, faccio sempre le stesse tecniche, non riesco ad entrare con qualsiasi tecnica, la guardia mi si abbassa quando attacco. Tutto questo, fortunatamente, può essere rimosso con tanto esercizio e tanta concentrazione trasformando il combattimento in un insieme di emozioni, divertimento e soddisfazione, come poche cose nella vita. Il kumite rimane una delle fasi più belle dell’allenamento, in cui emergono l’arte, l’eleganza e la marzialità del karate attraverso l’espressione delle proprie capacità e dei propri limiti il cui premio finale sarà l’insegnamento ricevuto e donato al proprio avversario.

OSU !

Ivano Casali

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