Japan Tour 2010: Il sogno di Kyoto.

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Japan Tour 2010: Il sogno di Kyoto.

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Parte I – L’arrivo.

L’aria, nella hall dell’albergo, inizia a diventare elettrica. Il nostro sguardo è fisso sulla porta scorrevole dell’entrata, aspettando l’arrivo di Tanaka Kancho, che si palesa sorridente e pronto per portarci nel luogo dove si insegna la via. I passi verso la stazione di Kyoto sono elastici e silenziosi, e le poche parole di Tanaka Kancho vengono intercettate e tradotte da Lorenzo, il nostro intermediatore con i suoni, i segni ed i sogni di questo mondo così lontano.
Il viaggio in treno sembra interminabile, e man mano che ci allontaniamo da Kyoto il contatto con la realtà sembra essere cambiato, l’esterno è poco illuminato, le scritte in inglese svaniscono, le scritte in Romaji sono tenute al minimo, si parlotta a bassa voce, parte qualche sorriso sovrapposto alla tensione per l’evento che si sta per compiere.
Alla stazione ci accolgono i membri Shinseikai con le loro vetture e sorrisi larghi come meloni giapponesi. Non sembra di essere in trasferta, ma a casa!
Le strade sono buie, non illuminate, e Kyoto sembra essere distante come Arcturus, si scambia qualche parola in macchina, sempre con Lorenzo nei panni di Google Translate, fino all’arrivo in una struttura illuminata.
Si esce dalla notte per entrare nella scuola, nell’evento, nell’emozione.

Parte II – I bambini Shinseikai.

Ci è concesso l’onore di seguire attivamente il turno dei bambini, con il riscaldamento, i Kihon, ed il Kumite. I miei occhi si velano e rimangono umidi nel vedere questi esserini, vestiti con il Karategi, che ci guardano sorpresi e divertiti mentre ripassiamo le basi insieme a loro. In loro vedo le facce dei miei figli e mi commuovo, e spero che non si veda: chissà cosa fanno Melissa e Mirco, e Alex e Lara. Ogni tanto incrocio lo sguardo con qualcuno di loro. I più coraggiosi tengono lo sguardo e sorridono, e il cuore mi si scioglie, e non posso fare a meno di riflettere su quanto due culture siano diverse e quanto i sentimenti possano renderci molto simili.
Arriva il momento del Kumite. Capiamo che i bambini dovranno affrontarci, ci disponiamo larghi sul tatami, e ad un comando di Sensei Iwasaki i bambini scattano per venirci incontro, spesso gareggiando a chi arriva primo per affrontare il Gaijin di turno. Qualcuno sorride, qualcuno ha uno sguardo beffardo, qualcuno è imbronciato: tutti si battono come leoncini, e qualcuno è talmente piccolo che non posso fare a meno di incoraggiarlo (Ganbatte!) mentre tira Tsuki e Geri con una frequenza e potenza impressionante per la loro età. La lezione dei teneri bimbi giapponesi volge al termine con la concentrazione, lo stretching ed il saluto finale, che mi regala un’emozione da raccontare quando lo spazio ed il tempo saranno propizi.

Parte III – La prova.

La prova di Filippo parte piano, ma acquista subito il ritmo e la potenza di un esame duro, e speciale. Le basi (i Kihon), le tecniche ai Pao (i colpitori) si susseguono in maniera impressionante, lasciando pochissimo spazio a distrazioni o a pericolosi cali di concentrazione. Tutta l’attenzione dei giudici, ed in particolare del giudice Quarto Dan Shinseikai, è rivolta a Filippo. Cerco di guardare e di interpretare le movenze e le espressioni facciali dell’esaminatore, con scarsi risultati. Il Glaciale non fa una grinza, ma riesco a scorgere tantissimi cenni con il capo – dall’alto verso il basso – che nel linguaggio dei segni comune, valido per fortuna anche in Giappone, equivale all’approvazione. Dopo l’equivalente di due lezioni Shinseikai (e chi frequenta il Dojo sa perfettamente qual’è l’impegno richiesto) viene il turno dei Sabaki, gli spostamenti laterali utilizzati per difesa ed attacco. Filippo sceglie il suo partner (guarda caso, il Sensei Iwasaki), ed illustra al Glaciale diverse tecniche che ammutoliscono tutti gli studenti, e non solo loro.
Il Glaciale stavolta annuisce palesemente, e non l’ho solo intuito. L’esame sembra interminabile, ed il meglio deve ancora venire.
È il turno dei Kata (le forme), movimenti belli, ipnotici, mortali. Il Dojo è silenzioso, riempito dai suoni delle forme ed il fruscio del Karategi, a volte morbido, a volte teso. I Kata lasciano posto alla prova dei trenta Kumite, trenta combattimenti senza interruzioni, trenta ostacoli che durano un minuto e mezzo che durante l’esecuzione – credetemi – sono molto, molto più lunghi.
I combattimenti si susseguono ed il tempo inizia ad allungarsi, e sembra non finire mai. Molti degli avversari vengono messi al tappeto, si rialzano, anche a fatica, e continuano a combattere: non è concessa nessuna scorciatoia, nessuna via breve, c’è solo fatica, sudore, coraggio, e soprattutto lo spirito giusto.
Man mano tutti gli studenti, e anche gli avversari, iniziano con gli occhi (noi italiani anche con la voce) ad incoraggiare Filippo per affrontare avversari che non indietreggiano, non si tirano indietro, combattono come un vero Samurai sa fare. “GANBATTE, FILIPPO” urlo, non ti arrendere, la strada è ancora lunga.
Il Glaciale scrive sulla lavagna segni provenienti da Marte, ed io ho perso il conto, non riesco a volgere gli occhi dal tatami, come mesmerizzato.
Gli ultimi Kumite sono eseguiti con le cinture nere, la prova – da dura – diventa quasi impossibile.
Cosa ci porta a superare i nostri limiti? Lo spirito giusto. Il ricordo di persone care. Il ricordo di chi non c’è più. Il coraggio. L’aiuto di tutti gli studenti del Dojo. La forza di combattere per chi non può farlo. L’immagine dei propri cari. La determinazione.
Il trentesimo squillo del timer ci trova in lacrime, le nostre e quelle del nostro Sensei. Non ho più paura di commuovermi. Non ho più paura.
Il Dojo diventa lacrime, applausi, urla. Il Dojo diventa festa.

Parte IV – La festa.

Il Dojo si è trasformato. Da concentrazione, ad azione, a festa. I volti sono sorridenti, Filippo è un Terzo Dan. Mi si avvicinano tutti salutando, mi parlano in Giapponese, io non capisco ma sorrido – sinceramente – e ringrazio. È tempo delle foto di rito. Mi viene concesso l’onore di intrufolarmi nelle fotografie scattate da fotocamere e migliaia di cellulari bianchi rosa grigi neri perla fucsia gialli, tutti uguali, che lampeggiano allegramente come fossero fuochi d’artificio, che cercano di immortalare il momento, come se serbarlo fuori dal cuore fosse importante. E forse lo è davvero. Quante volte potrò essere qui ancora? Quali sogni possono avverarsi? Mentre velocemente ci cambiamo e ci riaccompagnano alla stazione, mi chiedo se un giorno potrò ritornare. Alle volte la fortuna capita una sola volta nella vita. A me è capitata quattro volte, e forse capiterà ancora. La fortuna, alle volta trova alcuni ostacoli, duri come le pietre che Filippo ha spezzato nel Dojo di Kyoto. E spezzarle sempre dobbiamo, quelle pietre.
L’immagine che mi congeda dal Dojo di Kyoto è quella del saluto del maestro Iwasaki. Riesco solo ad inchinarmi ed a dire “Sensei…”. Lui sorride, e si inchina (davanti a me, cintura bianca, ultimo arrivato) più in basso di me.

Gabba.

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