Una nuova partenza

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Una nuova partenza

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In piedi, con il borsone poggiato sulla panca, il cappotto appeso all’attaccapanni. Sto lì piantata a osservare il tempo trascorso e vissuto. Tanti anni fa era molto più grande e spaziosa, e più comoda da usare. I colori beije e marrone hanno preso il posto del nome della società sportiva di cui facevo parte con i relativi colori bianco, blu e rosso. Come mi divertivo ad indossare quella tuta e a portare quel borsone. Come un pavone a coda aperta, entravo dalla porta principale certa di portare qualche cosa di buono con me, visto che ero una delle atlete di elite della scuola. Ricordo bene il primo sorriso nell’indossare la tuta, la gioia nel poter mettere da parte la borsa vecchia e malandata da ragazza che fa karate, per riempirla da karateka agonista. Intanto una mano tira un lembo della cucitura, mentre l’altra fa scorrere la lampo, per scoprire il contenuto. Eccolo lì bianco, accuratamente piegato. Lo chiamavo karategi, proninciando la g come nella parola gioco, invece del suono secco della parola gatto. Perchè quando sono arrivata qui è stata una delle prime cose che mi hanno detto. Un primo risveglio. Le mani, guidate dall’abitudine cercano i pantaloni, la prima cosa che si mette di un karategi. Ne ho indossati di ogni tipo, ricordo i primi, da bimba non facevo caso alla consistenza o alla lunghezza, mi accorgevo però, trascorso un po’ di tempo, che era il caso di cambiarli visto che non riuscivo più a muovermi bene e quindi si passava alle misure successive, fino a che non sono poi arrivata a chiedere quelli che si era comprato papà. Ricordo i pantaloni per le gare di kata, duri come la calce, corti fin sotto le ginocchia e rumorosi, per far sentire quanto fossero ‘stampati’  i calci. Il completo opposto dei pantaloni che indossavo a kung fu, questi ultimi infatti erano neri, e morbidissimi, sembrava quasi di indossare un pigiama. Prendo il reggiseno e lo indosso. Ho iniziato che ancora non ero una signorina, mi viene in mente uno dei miei primi combattimenti: da piccolina sono sempre stata molto minuta e gracilina, mi hanno messo a fare kumite con un ragazzo grosso il triplo di me e molto poco coordinato, che al primo hajime mi pianta uno tsuki sul petto, colpendo quel maledetto paraseno di plastica che come un mattone schiaccia il petto che aveva appena iniziato il suo sviluppo; ricordo che l’impatto era stato così forte da bloccarmi il respiro e che mi ci volle un intero week end per ricominciare a respirare a polmoni pieni senza fitte sulle costole. Mentre lo allaccio, lo sguardo cade subito sulla casacca, le mani lo seguono e la prendono. Con il solito movimento, infilo prima il braccio destro, e poi il sinistro- la mano destra apre il lato destro, mentre la sinistra segue il bordo del sinistro, fino ad incontrare il primo laccio della casacca, sul fianco destro. Anche lì abitudine…movimento eseguito senza esitazioni, senza incertezze o intoppi, come lavarsi la faccia. Faccio il primo fiocco, non troppo stretto altrimenti si rompe, come già successo tante volte, poi la mano sinistra tira il lembo sinistro, mentre la destra cerca l’altra estremità, per allacciarla anche sul lato sinistro. Stessa cosa. Mi accorgo però che sto eseguendo i movimenti lentamente, come se stessi facendo il più sacro dei riti. E il momento della cintura.  La mano sinistra afferra il primo lembo, la destra accompagna il primo giro intorno alla vita, la sinistra si da il cambio con la destra, al secondo giro non c’è bisogno di tenere il primo lembo, adesso la destra afferra il centro, la sinistra fa fare il primo giro, da sotto. Primo nodo. La destra prende il capo da sopra, l’altra raddrizza la parte tenuta ferma fino a quel momento, la destra accompagna il secondo giro, da sopra questa volta. Insieme afferrano dal rispettivo lato, e insieme tirano. Prima uno strattone leggero e poi quello finale, più forte per fissare il nodo. La mano sinistra passa invano le dita sul polso della destra, sorrido al ricordo dei lunghi capelli legati in una coda altissima, specialmente alle gare. Il regolamento di palestra, e anche quello di gara, imponeva alle donne di portare i capelli legati. In palestra per motivi di sicurezza, in gara perché non doveva esserci nulla che ostacolasse lo sguardo. Quando si entrava sul tatami per eseguire il kata, bisognava guardare l’arbitro direttamente negli occhi, mostrare determinazione e coraggio, serrare lo sguardo per gridare la propria presenza. Oggi il laccio al polso non c’è, non serve, porto i capelli corti. Esco dallo spogliatoio, tolgo le ciabatte prima di entrare nell’area dove ci alleniamo. Prima facevo un inchino, con le mani serrate lungo i fianchi, talloni uniti, inchinavo leggeremente la testa. Adesso incrocio i pugni, gambe nella posizione di yoi, li allargo simmetrici, alla stessa altezza, davanti al corpo e le labbra sospirano un ‘Osu’ al Dojo, che lentamente si sta riempiendo di noi. Passo davanti allo specchio per controllare di non aver lasciato nulla indietro. L’effetto è veramente diverso. Il karategi come ho già detto era rigido, braccia e gambe chiuse in quell’armatura, e il tutto tenuto in ordine dalla cintura, nera. Avevo appena vinto i campionati regionali di qualificazione per i campionati Italiani, e stavo immersa nei libri, con il tentativo di recuperare i compiti non fatti, stavo preparando qualche interrogazione ricordo…quando sul bianco dei fogli che stavo scrivendo mio padre leggermente posa quella cintura nera: ‘questa cintura non conosce sconfitte, ha detto Gianni’. Un brivido sotto la mia pelle. Il MIO maestro mi stava dando la sua cintura personale, con il suo nome scritto da un capo, mentre dall’altro il nome dello stile. Ideogrammi rossi, su sfondo nero. E’ bellissima!! Gianni sa che ho messo il cuore, la passione pura, in quello che ho fatto, e sa che continuerò a metterlo in tutto. Ricordo l’ultimo discorso che abbiamo fatto. Dicevo che sentivo che mi mancasse qualcosa..avevo bisogno di crescere e di approfondire alcuni punti. Mi rispose che lui mi aveva mostrato la ‘Do’, la via, e cosa farne dipendeva solo da me. Ricordo che parlammo tanto e a lungo. Mi conosce da quando avevo nove anni, mi ha insegnato la disciplina giusta da avere in una palestra, il rispetto delle regole e il rispetto per il maestro, quando egli è il primo a dartene. Ho imparato da lui che non c’è tempo per perdersi in mezzo alle frivolezze, ricordo una volta in cui fui duramente sgridata perchè mi toglievo da un dito un poco di polvere di palestra, e ho imparato anche che le cose migliori si fanno sempre con il sorriso. Dentro la palestra era un Sensei, un capo, severo e rigido e tosto da seguire, ma appena si usciva dalla palestra si scherzava e si rideva insieme, tutto puro e vero!!! Per tredici lunghi anni ho studiato principalmente il mondo dei kata di Goju Ryu, ne parlerò in seguito.  A quel punto sentivo che mi mancava qualcosa. Ho deciso di prendere la mia strada. Dopo una corta ma intensissima fase di kung fu, (praticando lo stile della Mantide Religiosa) arrivo al Dojo Shinseikai. Rivedere i karategi mi ha fatto un effetto particolare, mi sono sentita a casa. E mentre il senpai mi chiedeva di eseguire un chudan soto uke, il mio corpo gioiva nell’eseguire una tecnica tanto familiare e, come quando spolveri un libro per tanto tempo tenuto in cantina, ho iniziato a riprendere colore. Ho riacceso il mio corpo, duramente messo alla prova da una gravidanza e da un parto dolorosissimo. Dopo due anni, avevo ancora dei problemi di equilibrio e di coordinazione e qui nel Dojo Shinseikai, giorno dopo giorno, sudata dopo sudata, caduta dopo caduta, ho riconquistato ciò che avevo perduto e adesso sto facendo anche di più. Sto colmando la mia grande lacuna del kumite. Piano piano, in fondo non c’è fretta quando si tratta di apprendere nelle arti marziali, non è MAI tardi. Guardo la mia cintura bianca e penso a quanto siano belle le nuove partenze. Si dice che chiusa una porta si apra un portone. Io non ho chiuso nessuna porta, ho fatto un gigantesco sacco, che porto amorevolmente nella mia testa, e ho aperto un portone pieno zeppo di porte di tutti i tipi: la porta della continua sfida, la porta del non mollare mai, la porta delle nuove persone, la porta delle nuove regole e soprattutto la porta, per me quasi nuova di zecca, del kumite full contact, che contiene un po’ tutte le precedenti. Giro lo sguardo e leggo ‘i vincitori sono semplicemente disposti a fare quello che i perdenti non vogliono fare’, incrocio il mio sguardo allo specchio, ‘sei pronta’.

Il Sensei da lo YAME!

 Osu!

Giovanna Catavitello

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